Io ho sempre fatto il mio dovere,
ora voi fate il vostro. Io vi perdono. Viva l'Italia". Sono le ultime
parole di un condannato a morte della "guerra civile", pronunciate il
13 febbraio 1946, ben dieci mesi dopo la fine ufficiale delle ostilità. Un
condannato, Ferruccio Spadini, padre di cinque figli e con una madre morta per
il dolore quattro giorni più tardi, che verrà riabilitato il 22 aprile 1960
dalla Corte di Cassazione e che ora un libro del ricercatore bresciano Lodovico
Galli (Un martire della Repubblica Sociale Italiana, stampato in proprio,
pp.192, euro 13) ripropone all'attenzione degli storici quale esempio di un
clima da caccia alle streghe che dopo il 25 aprile 1945 aveva finito con il
travolgere colpevoli e innocenti.
Spadini, nato a Mantova nel 1895, aveva partecipato come volontario alla Prima
guerra mondiale, divenendo amico di Gabriele D'Annunzio ("compagno d'arme
che per predestinazione, eroica porta nel suo stesso nome l'acciaio e il
ferro", lo esaltò il Vate) e meritandosi per le gesta sul Montello e sul
Piave una medaglia d'argento, una croce di guerra al valore militare e una al
merito di guerra. Dopo la "vittoria mutilata", torna a vita privata,
laureandosi e dedicandosi all'insegnamento. È fascista, certo, ma tanto
anticonformista da inneggiare pubblicamente all'ex segretario del Pnf Turati e
da perdere il lavoro per un anno.
Nel 1935 il sogno di "un posto al sole" lo fa partire, di nuovo
volontario, alla volta dell'Africa Orientale Italiana, dove si guadagna
un'altra croce di guerra e la restituzione della tessera del partito. Etiopia
sì, ma Spagna no, perché "guerra di partito e non per la Patria".
Allo scoppio del Secondo conflitto mondiale è in Albania e Slovenia. Dopo l'8
settembre, dinanzi al fuggi-fuggi generale, aderisce alla Rsi e viene messo al
comando di un battaglione della GNR denominato O.P. (Ordine Pubblico). Rifiuta
la carica di questore di Cuneo, ma come maggiore è dal luglio '44 il responsabile
dell'ordine pubblico in Val Camonica. Nel maggio '45 si consegna con i suoi
sottoposti agli uomini del CNL della Val di Non. Viene torturato, accusato di
collaborazionismo e condannato alla pena capitale per fucilazione nella schiena
con relativa confisca dei beni.
Galli, pubblicando i memoriali scritti in carcere, la sentenza del
processo-farsa, le lettere ai familiari, le poesie e le testimonianze di ex
allievi del professore divenuti partigiani, e le battaglie legali per la
riabilitazione, offre al lettore parecchi documenti inediti. Che parlano da
soli, senza bisogno di interpretazioni storiografiche. Testimoniano l'amor
patrio e lo scetticismo nei confronti del Duce di Spadini, la sua indipendènza
d'azione rispetto al Comando tedesco, i suoi compiti soprattutto (reclutamento,
pratiche di pensioni di guerra, repressione del mercato nero). La lotta contro
i ribelli non lo riguarda, essendo lasciata a reparti appositi come la legione
"Tagliamento", e anzi viene persino deferito alla Commissione disciplina
per connivenza con i partigiani, mentre il generale Kotz lo minaccia di
internamento in Germania.
Eppure, tutto ciò sparisce dinanzi all'accusa di aver operato una lunga serie
di rastrellamenti. II tribunale di Brescia non lo considera, in quanto aderente
alla illegittima Rsi, neppure un militare e non gli concede attenuanti di sorta
(nemmeno le onorificenze conquistate nella Grande guerra...): ha tradito la
Patria e deve morire. Sentenza poi confermata il 24 settembre 1945 dalla
Suprema Corte.
Per salvarlo si mobilitano in tanti, il prefetto e il questore, nella Curia
vescovile di Brescia monsignor Giacinto Tredici e monsignor Angelo Pietrobelli,
e persino il futuro papa (Paolo VI) GianBattista Montini che telefona al
presidente del Consiglio De Gasperi. Il premier risponde: "Io concedo la
grazia, ma debbo sentire il parere del Ministro di Grazia e Giustizia". E
il Ministro, cioè il comunista Palmiro Togliatti, dice no. Spadini viene
fucilato. In nome della giustizia.