martedì 29 novembre 2011

FERRUCCIO SPADINI: LA CONDANNA DI UN INNOCENTE


Io ho sempre fatto il mio dovere, ora voi fate il vostro. Io vi perdono. Viva l'Italia". Sono le ultime parole di un condannato a morte della "guerra civile", pronunciate il 13 febbraio 1946, ben dieci mesi dopo la fine ufficiale delle ostilità. Un condannato, Ferruccio Spadini, padre di cinque figli e con una madre morta per il dolore quattro giorni più tardi, che verrà riabilitato il 22 aprile 1960 dalla Corte di Cassazione e che ora un libro del ricercatore bresciano Lodovico Galli (Un martire della Repubblica Sociale Italiana, stampato in proprio, pp.192, euro 13) ripropone all'attenzione degli storici quale esempio di un clima da caccia alle streghe che dopo il 25 aprile 1945 aveva finito con il travolgere colpevoli e innocenti. 
Spadini, nato a Mantova nel 1895, aveva partecipato come volontario alla Prima guerra mondiale, divenendo amico di Gabriele D'Annunzio ("compagno d'arme che per predestinazione, eroica porta nel suo stesso nome l'acciaio e il ferro", lo esaltò il Vate) e meritandosi per le gesta sul Montello e sul Piave una medaglia d'argento, una croce di guerra al valore militare e una al merito di guerra. Dopo la "vittoria mutilata", torna a vita privata, laureandosi e dedicandosi all'insegnamento. È fascista, certo, ma tanto anticonformista da inneggiare pubblicamente all'ex segretario del Pnf Turati e da perdere il lavoro per un anno.
Nel 1935 il sogno di "un posto al sole" lo fa partire, di nuovo volontario, alla volta dell'Africa Orientale Italiana, dove si guadagna un'altra croce di guerra e la restituzione della tessera del partito. Etiopia sì, ma Spagna no, perché "guerra di partito e non per la Patria". Allo scoppio del Secondo conflitto mondiale è in Albania e Slovenia. Dopo l'8 settembre, dinanzi al fuggi-fuggi generale, aderisce alla Rsi e viene messo al comando di un battaglione della GNR denominato O.P. (Ordine Pubblico). Rifiuta la carica di questore di Cuneo, ma come maggiore è dal luglio '44 il responsabile dell'ordine pubblico in Val Camonica. Nel maggio '45 si consegna con i suoi sottoposti agli uomini del CNL della Val di Non. Viene torturato, accusato di collaborazionismo e condannato alla pena capitale per fucilazione nella schiena con relativa confisca dei beni.
Galli, pubblicando i memoriali scritti in carcere, la sentenza del processo-farsa, le lettere ai familiari, le poesie e le testimonianze di ex allievi del professore divenuti partigiani, e le battaglie legali per la riabilitazione, offre al lettore parecchi documenti inediti. Che parlano da soli, senza bisogno di interpretazioni storiografiche. Testimoniano l'amor patrio e lo scetticismo nei confronti del Duce di Spadini, la sua indipendènza d'azione rispetto al Comando tedesco, i suoi compiti soprattutto (reclutamento, pratiche di pensioni di guerra, repressione del mercato nero). La lotta contro i ribelli non lo riguarda, essendo lasciata a reparti appositi come la legione "Tagliamento", e anzi viene persino deferito alla Commissione disciplina per connivenza con i partigiani, mentre il generale Kotz lo minaccia di internamento in Germania.
Eppure, tutto ciò sparisce dinanzi all'accusa di aver operato una lunga serie di rastrellamenti. II tribunale di Brescia non lo considera, in quanto aderente alla illegittima Rsi, neppure un militare e non gli concede attenuanti di sorta (nemmeno le onorificenze conquistate nella Grande guerra...): ha tradito la Patria e deve morire. Sentenza poi confermata il 24 settembre 1945 dalla Suprema Corte.
Per salvarlo si mobilitano in tanti, il prefetto e il questore, nella Curia vescovile di Brescia monsignor Giacinto Tredici e monsignor Angelo Pietrobelli, e persino il futuro papa (Paolo VI) GianBattista Montini che telefona al presidente del Consiglio De Gasperi. Il premier risponde: "Io concedo la grazia, ma debbo sentire il parere del Ministro di Grazia e Giustizia". E il Ministro, cioè il comunista Palmiro Togliatti, dice no. Spadini viene fucilato. In nome della giustizia.

venerdì 29 luglio 2011

CAMILLERI, IL COMUNISTA CHE SI SENTIVA LIBERO SOTTO IL FASCISMO




"Un consiglio ai ragazzi? Eccolo: farsi condizionare il meno possibile da una società che finge di darci il massimo della libertà, e invece ci dà il massimo del condizionamento. Io, sotto il fascismo, ero più libero di quanto voi siete adesso...".   Tradotto vuol dire: "ragazzi. con Berlusconi, che odio sinceramente, mi sento meno libero che sotto il fascismo" . Stupendo!
E poi qualcuno dubita ancora che i comunisti esistano ed abbiano qualche influenza sulla cultura italiana. Prendiamo Andrea Camilleri. Non si può dire che non sia influente: è uno degli scrittori più venduti del nostro Paese, sforna romanzi a getto continuo (dove trovi il tempo rimane un mistero). Si dirà: lo accusate di comunismo solo perché firmava sull’Unità, un po’ poco. Se non siete convinti, guardatevi 'Questo mondo un po’ sgualcito', libro-intervista curato da Francesco De Filippo. Si tratta di un’operazione benefica a favore dell’Africa, che però ha più di un risvolto inquietante.
Che Camilleri odi Berlusconi, per continuando a pubblicare con Mondadori, non è certo una novità. («Uno, uno su mille crede in Berlusconi… beh, l’idiota del villaggio c’è sempre», sentenzia). Ma quel che c’è di nuovo e raccapricciante riguarda prima di tutto l’Unione Sovietica. Secondo lui, il moloch comunista aveva iniziato bene. «Se ne avesse avuto il tempo», Lenin avrebbe davvero potuto portare a termine qualcosa di molto positivo. Solo dopo la situazione è un po’ sfuggita di mano al Pcus. «Più tardi ci sono state le azioni riprovevoli, ma non mi riferisco ai gulag», spiega lo scrittore. «Voglio precisare che i gulag non furono campi di sterminio; Solgenitsin, tanto per fare un nome, con i nazisti non sarebbe sopravvissuto».
Dunque finire alle Solovkij era un piacere, dopotutto nei lager rossi non erano così cattivi. Forse Camilleri potrebbe rileggersi Arcipelago Gulag o I racconti di Kolyma, tanto per farsi un’idea di che cosa fossero realmente i campi sovietici.
In ogni caso, lo scrittore siciliano è convinto che l’Urss fosse un posto carino, nonostante qualche difettuccio. «Queste, chiamiamole così, azioni riprovevoli hanno offuscato ciò che ha rappresentato l’Urss», dice lo scrittore. «Per milioni e milioni di persone il riscatto dalla povertà, la dignità del lavoro che l’Urss prometteva, sostituiva di gran lunga l’idea generica di libertà che l’America proponeva senza incidenza sulla realtà economica europea». Senza contare poi che «si dimentica facilmente l’immane sforzo sostenuto dall’Unione Sovietica nella Seconda guerra mondiale. A decine di milioni morirono per contrastare Hitler».
In fondo, se l’Urss fosse sopravvissuta, adesso lì non si starebbe male. «Non c’è una persona trentenne, dai trent’anni in su, che arrivi dall’ex Unione Sovietica in Italia e che fa la modella, la cantante, la cameriera che non sia ingegnere o diplomata. Ciò significa che se il comunismo fosse continuato in Urss forse oggi l’Urss si troverebbe allo stesso livello della Cina».
Ah, già, la Cina. Camilleri ne ha anche per i compagni orientali. Vero, ammette, lì non si rispettano i diritti umani. Ma i governanti europei sono molto ipocriti. «Guardiamo in faccia alla realtà: anche i regimi cosiddetti democratici utilizzano il sistema dell’annullamento dell’avversario». Peggio, molto peggio, la «dittatura» di Silvio.
A un certo punto, l’intervistatore De Filippo ha uno scatto di orgoglio e chiede al creatore di Montalbano di commentare i fatti di Tienanmen. Se qualcuno è sceso in piazza a protestare, subendo la repressione violenta del governo, qualcosa vorrà pur dire. Niente, Camilleri non cede. Dietro Tienanmen, per lui, c’è qualcosa si losco. E in ogni caso trattasi di episodio di poco conto. «Se metti cinquantamila in piazza in Cina non sono niente». Se hanno sparato sulla folla, un motivo ci sarà: «Non credo che si spari facilmente neanche in un regime dittatoriale, è di una superficialità assoluta ritenere che lo si faccia facilmente». Geniale conclusione: «Non so che cosa c’è dietro Tienanmen quindi perché devo parlarne?».
Poco dopo arriva la perla. Nei regimi rossi non c’è liberta? «Quello è inevitabile perché tu… non sono cose che vengono fatte perché l’uomo è buono, allora di sua spontanea volontà… tu devi costringere l’uomo a fare alcune cose e quindi alcune libertà personali vengono limitate ma… la domanda che allora io rivolgerei è: dov’è che non vengono limitate le libertà personali nel mondo?». Massì, le purghe sono salutari.
Dulcis in fundo, Cuba: «C’è chiaramente una dittatura, ma non ci sono stati desaparecidos, cioè si sa chi era e chi è ancora in galera, con nome e cognome, non ci sono scomparsi perché prelevati di notte dalla polizia o dai paramilitari. Volendo, i parenti possono visitarli. Ci sono state fucilazioni ma vanno viste le condizioni che hanno portato a questo. Sappiamo soltanto quello che ci dice la stampa statunitense e non quella non condizionata». Vabbé, gli oppositori ricevono una buona dose di piombo in corpo, ma non sono proprio stinchi di santo. A Cuba, insomma, sono severi ma giusti.
Sarà l’età, sarà il gravoso impegno di scrittura, ma oltre a essere comunista, Camilleri  mi sembra pure un pochettino fuori di senno.